giovedì 30 giugno 2016

Edward Thorndike. Nel 1905 teorizzò le sue scoperte con tre leggi. La “legge dell’esercizio” stabiliva che l’apprendimento è graduale e migliora con l’esercizio; la “legge dell’effetto” spiega che l’apprendimento è legato al comportamento, ovvero la possibilità che un comportamento si ripeta è più alta se conduce a un risultato desiderabile; e la “legge del trasferimento” dice che una risposta acquisita in una situazione verrà più facilmente ripetuta in altre situazioni quanto più queste sono simili alla prima. Thorndike generalizzò le sue scoperte dall’animale all’uomo: la sua pedagogia utilizza le leggi dell’apprendimento, e si basa dunque sull’idea che una buona ricompensa riesca a influenzare il comportamento di un soggetto più di quanto non riesca a fare una dura punizione.




I cani, i gatti e i padri fondatori della psicologia comportamentista
di Chiara Bastelli

Nel 1890 il fisiologo russo Ivan Pavlov, mentre eseguiva alcune ricerche sulla digestione dei cani, ideò un modo per raccogliere e misurare la loro salivazione, che notò essere una reazione alla presenza del cibo, ma non solo. Pavlov provò a far precedere alla somministrazione del cibo un suono e, col tempo, notò che i cani salivavano anche al semplice ascolto del suono che era diventato per loro uno stimolo psicologico. 
Con il condizionamento, il suono (uno stimolo neutro) riusciva a generare la salivazione, una risposta che ad esso non era direttamente correlata, ovvero una risposta condizionata. Il principio del condizionamento pose le basi per il comportamentismo, la corrente psicologica che avrebbe dominato il mezzo secolo seguente.

L’approccio comportamentista è nato dal desiderio di far uscire la psicologia dal campo delle speculazioni filosofiche e di farla diventare una scienza stabilendo dei metodi scientifici di studio della nostra psiche. Numerosi psicologi americani cominciarono a credere che si potesse comprendere lo spirito osservando la sua interazione col mondo attraverso i comportamenti. Ciò che interessava loro era comprendere, attraverso un metodo sperimentale, la relazione tra certi tipi di stimoli (ambientali) e certi tipi di risposte (comportamentali).

Lo psicologo americano Edward Thorndike proseguì gli studi di Pavlov e diede una nuova connotazione al concetto di “condizionamento”. Nei suoi esperimenti, Thorndike chiudeva i gatti dentro a particolari gabbie che si sarebbero aperte solo nel momento in cui l’animale avesse azionato una particolare leva. All’esterno della gabbia c’era una ciotola piena di cibo ad attenderlo. 
Mentre Pavlov condizionava i suoi cani con uno stimolo neutro, i gatti di Thorndike dovevano scoprire da sé quale comportamento portasse a una ricompensa. Se all’inizio i gatti scoprivano la maniera di uscire dalla gabbia solo per caso, proseguendo le osservazioni misurò che i gatti ci mettevano sempre meno tempo a raggiungere il loro intento. 
Stabilì dunque che i gatti ripetevano con più frequenza le azioni che portavano al risultato voluto (condizionamento positivo) e abbandonavano quelle che non servivano al loro scopo (condizionamento negativo).

Nel 1905 teorizzò le sue scoperte con tre leggi.
La “legge dell’esercizio” stabiliva che l’apprendimento è graduale e migliora con l’esercizio; la “legge dell’effetto” spiega che l’apprendimento è legato al comportamento, ovvero la possibilità che un comportamento si ripeta è più alta se conduce a un risultato desiderabile; e la “legge del trasferimento” dice che una risposta acquisita in una situazione verrà più facilmente ripetuta in altre situazioni quanto più queste sono simili alla prima.

Thorndike generalizzò le sue scoperte dall’animale all’uomo: la sua pedagogia utilizza le leggi dell’apprendimento, e si basa dunque sull’idea che una buona ricompensa riesca a influenzare il comportamento di un soggetto più di quanto non riesca a fare una dura punizione.





martedì 28 giugno 2016

Augé e la religione del calcio. In un mondo che ha fatto dell’individualismo e del solipsismo il suo credo, il calcio dà ancora la possibilità di creare una comunità, di sentirsi parte di qualcosa

Nelle società occidentali, l’individuo si considera un mondo a sé.
Egli si propone di interpretare da se stesso per se stesso le informazioni che gli vengono date […]
mai le storie individuali sono state così esplicitamente implicate nella storia collettiva ma al contempo mai i riferimenti dell’identificazione collettiva sono stati così fluttuanti.
La produzione individuale di senso è dunque più che mai necessaria.
M. Augé, Non luoghi, Eleuthera, 1992, pagina 38


Augé e la religione del calcio: 
"In un mondo che ha fatto dell’individualismo e del solipsismo il suo credo, il calcio dà ancora la possibilità di creare una comunità, di sentirsi parte di qualcosa, sia come tifosi, quindi pensando al calcio come spettacolo: del resto è un momento di grande convivialità e felicità quando ci si può sedere in poltrona con gli amici davanti al televisore per vedere giocare la propria squadra del cuore; sia nella pratica: quasi tutti gli uomini in età da matrimonio si vedono regolarmente una o due volte a settimana, per i più stoici, per giocare la partita di calcetto e sentirsi per almeno un’ora come i propri beniamini, provando mimeticamente a realizzare le loro prodezze".
Augé e la religione del calcio | Matteo Bianchi 

[...] c’è qualcosa di più primitivo e ancestrale, qualcosa che è legato alla fede e alla religione.
È proprio quello che ha fatto Marc Augé, l’antropologo del quotidiano e del non-luogo, svelando la dimensione religiosa e rituale del calcio. Così aveva scritto in un articolo uscito nel febbraio del 1982 sulla rivista Le Débat dal titolo significativo Football. De l’histoire sociale à l’anthropologie religieuse. [...]
Il testo è stato scritto negli anni Ottanta e molte cose sono cambiate nel mondo del calcio, sicuramente è venuta meno quella poesia che ancora si può ritrovare nelle pagine di Augé, ma una cosa resta certa: il calcio è il vero oppio dei popoli. 

È un fenomeno religioso per diversi fattori, prima di tutto la sua valenza totemica: le squadre di calcio sono veri e propri totem, simboli attraverso i quali i tifosi si rappresentano e identificano, basti pensare ai gagliardetti o ai colori delle maglie. Questa rappresentazione comporta un fervore religioso nei confronti della squadra del cuore e, ancora più importante, una identificazione metonimica al gruppo: ci si sente parte integrante di una comunità. Proprio per questo motivo ci arroghiamo tutti il diritto di essere “allenatori”, perché condividiamo con la nostra squadra i suoi riti.

Questo è il punto fondamentale al giorno d’oggi: in un mondo che ha fatto dell’individualismo e del solipsismo il suo credo, il calcio dà ancora la possibilità di creare una comunità, di sentirsi parte di qualcosa, sia come tifosi, quindi pensando al calcio come spettacolo: del resto è un momento di grande convivialità e felicità quando ci si può sedere in poltrona con gli amici davanti al televisore per vedere giocare la propria squadra del cuore; sia nella pratica: quasi tutti gli uomini in età da matrimonio si vedono regolarmente una o due volte a settimana, per i più stoici, per giocare la partita di calcetto e sentirsi per almeno un’ora come i propri beniamini, provando mimeticamente a realizzare le loro prodezze.

Ma non solo, come tutte le religioni anche il calcio ha le sue sette, che si esprimono nelle diverse visioni che si hanno del gioco. C’è chi ha una visione individualista, in cui domina il dribbling e le potenzialità del singolo giocatore, e chi invece ama un sistema basato sui passaggi e il superamento della difesa attraverso il gioco di squadra. Ma non solo, c’è chi ama il bel calcio anche se si perde, chi invece preferisce vincere anche giocando male; poi c’è il caso di chi (penso a noi interisti) gioca male e perde. Negli ultimi anni esempio perfetto di calcio “nobile” è stato il tiqui-taca del Barcellona, calcio di una geometria paradisiaca alternato da giocate singole sublimi, ad opera soprattutto di Lionel Messi. Anni prima c’era stato il calcio totale della grande Olanda del compianto Johan Cruijff, che però non ha mai vinto nulla. Pochi giorni fa abbiamo assistito a uno scisma di tipo religioso durante la finale di Champions League tra i fedeli del cholismo, calcio feroce e molto muscolare, e quelli che invece prediligevano lo zidaneismo, gioco basato sulla capacità dei singoli. C’è un motto religioso, di stampo manicheo, che sintetizza questo discorso: “Dimmi come giochi e ti dirò chi sei”.

I calciatori sono semi-divinità, il calcio non può che essere una religione politeistica e pagana, e noi spettatori siamo come gli dei di Omero che li vediamo dall’alto battersi. Ogni tanto ci sono giocatori che entrano nel pantheon delle divinità perché hanno fatto da collante tra cielo e terra, veri e propri angeli caduti che tornano da dove erano venuti: penso a Garrincha, che nonostante la poliomielite è stato la più grande ala destra di tutti i tempi, dotato di una creatività tecnica sconcertante; a Franz Beckenbauer che nella semifinale del 1970 contro l’Italia, persa ai supplementari 4 a 3, rimase in campo con un braccio fasciato per una spalla slogata; oppure al gol di mano di Maradona contro l’Inghilterra nei mondiali del 1986, ribattezzata giustamente “la mano de Dios”.

Nel suo libro Marc Augé parla soprattutto del calcio inglese di fine Ottocento inizio Novecento per suffragare le sue tesi, citando la monumentale opera di Tony Mason sulla storia sociale della Football Association. Venendo dalla Francia non ha certamente la stessa passione per il calcio che si ha nei paesi mediterranei o in Sud America, come tutti i francesi, è un amante degli sport individuali, e si esalta maggiormente per una demi volée al Roland Garros o per no stacco in salita durante una tappa dolomitica al Tour de France. 

Si dovrebbe cercare di capire come sta il fenomeno religioso calcio in un paese come l’Italia, dove nella Capitale ci sono emittenti radiofoniche che parlano di calcio 24 ore su 24, nel 2014 si fecero due interrogazioni parlamentari contro l’arbitraggio di Rocchi in Juve-Roma, e dove in quasi tutti i bar ogni discorso sulla politica finisce sempre e comunque sul calcio. 

In un momento da “caduta dell’Impero romano”, per usare un eufemismo il calcio non nuota in buone acque. Il Presidente della FIGC Carlo Tavecchio, degno erede di “Bongo bongo bongo stare bene solo in Congo”, ha apostrofato il giocatore della Juve Paul Pogba “Opti Pobà”, rincarando poi la dose dicendo che prima di giocare nel campionato italiano “mangiava le banane”. Gli stadi, più che a cattedrali assomigliano a chiese assassinate o a rovine di templi aztechi e inca: edifici fatiscenti ormai nelle mani di pochi tifosi che sfogano durante la domenica la loro perdita di speranza e di reali possibilità di realizzazione personale. All’urlo renziano di “rottamazione”, il prossimo c.t. della Nazionale italiana sarà Giampiero Ventura, età 70 anni. Dulcis in fundo, la nazionale che si appresta a giocare gli Europei è forse la più scarsa degli ultimi trent’anni. 

Alla fine del suo saggio Marc Augé chiede al lettore: “Forse l’Occidente sta anticipando una religione e ancora non lo sa”? Si potrebbe rispondergli: “Il Dio del pallone è morto, Marx è morto e anch’io non mi sento tanto bene”. Al Dio del calcio si è sostituito quello del denaro, così come al dribbling si è sostituito il fair play finanziario. Il calcio come fenomeno religioso rischia che i suoi fedeli si disincantino, secondo le parole di Max Weber, ma ci potrebbe essere un colpo di reni come nel 2006, quando l’Italia vinse i Mondiali dopo la tragedia Calciopoli.

L’Italia, così come gli italiani, dà il meglio di sé nei momenti peggiori, mostra il suo spirito agguerrito di squadra: non ci sarebbe da meravigliarsi se una vittoria agli Europei cancellasse gli ultimi anni di profonda crisi del calcio italiano, perché come tutti i fedeli del mondo, anche gli italiani hanno una memoria corta e molto influenzabile. 

Ma anche questo sperare nella vittoria agli Europei come riscatto sociale del calcio italiano e in fondo del paese stesso non è forse una fede totemica bell’e buona? Direi proprio di sì, e anche per questo motivo il saggio di Augé, benché uscito più di trent’anni fa, può dire ancora molto sulle dinamiche di questo sport tanto amato e più in generale sulla specie umana, del quale bene o male anche l’italiano fa parte. 

http://www.doppiozero.com/materiali/auge-e-la-religione-del-calcio

venerdì 24 giugno 2016

La lettera che ispirò Jack Kerouac per “Sulla strada”

La lettera che ispirò Jack Kerouac per “Sulla strada”

La lettera che ispirò Jack Kerouac per “Sulla strada”Come lo stesso Kerouac ha ammesso più volte, l’ispirazione per lo stile di Sulla strada, il romanzo capolavoro della beat generation pubblicato nel 1951, gli derivò da una lettera.
Si tratta, però, di una lettera molto speciale,indirizzata a Kerouac dall’amico di sempre Neal Cassady il 17 dicembre 1950. Quaranta pagine scritte in tre giorni e, come ha confessato lo stesso autore, sotto l’effetto della benzedrina.
«Ho avuto l’idea dello stile spontaneo di Sulla strada, vedendo come il buon vecchio Neal Cassady scrisse la sua lettera indirizzata a me, tutta in prima persona, veloce, folle, confessionale, completamente seria, tutta piena di dettagli, con i nomi reali in ogni caso», ha dichiarato Kerouac in un’intervista del 1968 a «Paris Review».
Nella sua risposta a Cassady il 27 dicembre, Kerouac ha scritto: «Ho pensato che dovesse essere annoverata tra le cose migliori mai scritte in America… era buona quasi quanto le incredibili Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij… Raccogli insieme tutti gli stili migliori… di Joyce, Céline, Dosy [sic]… e li utilizzi nella corsa muscolare del tuo stile narrativo e della tua eccitazione. Lo dico seriamente, né Dreiser né Wolfe sono arrivati a qualcosa di vicino a questo; Melville non è mai stato più vero».

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La lettera che ispirò Jack Kerouac per “Sulla strada”
E sempre a «Paris Review», Kerouac ha confessato di aver prestato la lettera ad Allen Ginsberg che poi la prestò a un amico e Kerouac credette che quest’ultimo avesse perso la lettera facendola cadere dalla sua casa galleggiante in California.
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La lettera fu messa al sicuro negli archivi del Golden Goose Press, dove è stata scoperta da Jean Spinosa nel 2012, più di 60 anni dopo la sua redazione.
La lettera che ispirò Jack Kerouac per “Sulla strada”
Successivamente, è stata messa all’asta nel 2014, ma gli eredi di Kerouac e Cassady ne hanno reclamato la proprietà. Nel frattempo, è stato raggiunto un accordo amichevole, e Jamy Cassady ha annunciato al «San Francisco Chronicle» che Christie’s metterà all’asta la lettera con una stima tra i 400 mila e i 600 mila dollari il 16 giugno, dopo un tour che andrà da Seattle a New York tra il 31 maggio e il 15 giugno. Comunque, Cassady ha anche anticipato che la sua famiglia, che possiede i diritti della lettera, si sta attivando per la pubblicazione integrale. Finora, infatti, è stato pubblicato solo un frammento.

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La lettera che ispirò Jack Kerouac per “Sulla strada”
È una «dimostrazione convincente e discorsiva dell’amore frenetico di Cassady per la vita, una fuga acrobatica attraverso la finestra del bagno», dichiarano i responsabili di Christie’s, che confermano che la stessa ebbe un «effetto incendiario» sull’autore diSulla strada e «divenne immediatamente il catalizzatore per la svolta critica di Kerouac come scrittore, trasfigurando il suo approccio al materiale conservato nella sua memoria e registrato nei suoi diari. Cassady ha lasciato il suo segno su una generazione d scrittori grazie al potere di questa sola lettera… la sua crudezza e velocità colpirono questo filone del pensiero americano postbellico, richiamò insieme un’immediatezza della vita e il vivere con un nuovo intellettualismo, fuse l’esistenzialismo con la venuta del pop, il prosaico con l’elegiaco. E lo fece influenzando i più importanti esponenti del movimento senza il beneficio di ricavarne un apprezzamento critico».

Estratto della lettera con cui Neal Cassady ispirò Jack Kerouac per Sulla strada:


Lettere di Neal Cassady a Jack Kerouac e Allen Ginsberg
Autore: Giorgia Guerra
INTERVISTATORE (da «Paris Review», 1968):
«Cosa ti ha incoraggiato a usare quello stile così “spontaneo” per Sulla strada?»
KEROUAC:
«Ho avuto l’idea di uno stile spontaneo per Sulla strada dalle lettere che il buon vecchio Neal Cassady mi scriveva, tutte in prima persona, veloci, pazze, piene di confessioni, totalmente serie, dettagliate, con nomi veri nel suo caso (essendo lettere). Mi ricordo anche quell’ammonimento di Goethe, beh ecco quella profezia di Goethe, che la letteratura occidentale del futuro avrebbe avuto una natura confessionale; anche Dostoevskij profetizzava lo stesso e avrebbe iniziato a darci dentro se avesse vissuto abbastanza per fare questo capolavoro che aveva in mente, La vita di un grande peccatore. Anche Cassady ha iniziato i suoi primi scritti di gioventù con vari tentativi lenti, diligenti, e tutto quello stile merdoso di maniera, ma se ne è stancato, proprio come me n’ero stancato io, vedendo che quella roba non veniva dalle viscere e dal cuore, da dove sentiva che uscisse tutto quanto. Ma ho avuto un flash dal suo stile. È una bugia crudele per tutta quella gente da due soldi della West Coast dire che ho avuto l’idea di Sulla strada da lui. Tutte le sue lettere indirizzate a me erano di quando era più giovane, prima che lo incontrassi, un bambino con suo padre, eccetera, e delle sue esperienze in tarda adolescenza. Hanno erroneamente riportato che la lettera che mi ha spedito  fosse 13.000 parole…no, il pezzo da 13.000 parole era il suo romanzo Il primo terzo, che ha tenuto in suo possesso. La lettera, la lettera più importante intendo, era lunga 40.000 parole, stai ben attento, un intero racconto. Era il più gran manoscritto che abbia mai visto, meglio di chiunque altro in America, o almeno grande abbastanza per far sì che Melville, Twain, Dreiser, Wolfe, e non so chi, si rigirassero nella tomba. Allen Ginsberg mi chiese di prestargli questa lettera per leggerla. La lesse, poi la prestò a un tipo di nome Gerd Stern che abitava in una casa galleggiante a Sausalito, California, nel 1955, e questo ragazzo perse la lettera. In mare presumo. Io e Neal l’abbiamo chiamata per convenienza La lettera Joan Anderson… tutta su un fine settimana di Natale, speso in sale da gioco, stanze d’albergo e prigioni di Denver, piena di eventi esilaranti e anche tragici, c’era perfino il disegno di una finestra, con le misure per farle capire al lettore, tutto quanto. Adesso ascolta: questa lettera sarebbe stata stampata sotto il copyright di Neal, se fossimo riusciti a trovarla, ma sai, era un mia proprietà in quanto indirizzata a me, quindi Allen non avrebbe dovuto essere così negligente, né quel tipo della casa galleggiante. Se potessimo riportare alla luce quell’intera lettera di 40.000 parole Neal potrebbe essere legittimato. Ci siamo anche fatti tra di noi chiacchierate così frenetiche, registrate su nastro, nel 1952, e le abbiamo ascoltate così tanto, abbiamo carpito entrambi il segreto di un LINGUAGGIO TUTTO NOSTRO per raccontare una storia, e abbiamo immaginato che questa era l’unica maniera per esprimere la velocità, la tensione, e le estatiche scemenze dell’età…ti basta?»
Hal Chase, uno studente della Columbia University all’epoca, e successivamente rappresentato sotto il nome di Chad King in Sulla strada, faceva parte della cerchia delle conoscenze di Cassady a Denver, che includeva anche Ed White e Al Hinkle. Prima dell’entrata ufficiale nel 1946 di Cassady nel gruppo 115th street, Chase aveva divulgato storie su questo giovane adone delle sale da gioco, rimasto orfano a 13 anni, che se ne andava in giro per l’intera biblioteca di Denver a leggere tutti i tipi di filosofia, e che era stato in prigione...
***
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Jack KerouacLettera di Neal Cassady a Jack Kerouac (7 marzo 1947)
Caro Jack,
sto seduto in una bar a Market St. Sono ubriaco, beh, non abbastanza, ma presto lo sarò. Sono qui per due ragioni: devo aspettare 5 ore l’autobus per Denver e, la ragione più importante, sono qui (a bere) a causa, ovviamente, di una donna, e che donna! Per andare in ordine cronologico: stavo seduto nell’autobus quando ha preso su altri passeggeri a Indianapolis, Indiana, e questa bellissima personificazione di proporzioni perfette, intellettuale, passionale, della Venere di Milo, mi chiese se il posto vicino a me fosse occupato!!!! Ho inghiottito, (sono ubriaco), ho emesso dei suoni gutturali e ho balbettato NO! (espressione paradossale, dopotutto come può qualcuno balbettare un No!!?) Si è seduta, ho sudato. Ha iniziato a parlare, sapevo che sarebbero state  delle banalità, quindi per tentarla sono rimasto zitto. Lei (il suo nome è Patricia) è salita sull’autobus alle 8 di sera (buio!), non ho parlato fino alle 10. Durante le due ore intercorse non solo mi sono deciso, ovviamente, a farmela, ma anche COME. Naturalmente non posso riportare la conversazione  parola per parola, tuttavia posso tentare di rendertene l’essenza dalle 10 alle 2.Senza i minimi preliminari per delle informazioni generiche (come ti chiami? dove stai andando? ecc.) mi sono gettato a capofitto in una maniera di parlare totalmente esplorativa, soggettiva, personale, e per così dire “da penetrarla fino al midollo”; per farla breve (dal momento che sto diventando incapace di scrivere) per le 2 le avevo fatto giurare amore eterno, una totale sottomissione e un immediato soddisfacimento. Io, pregustandomi un piacere ancora più grande, non le avrei lasciato farmi un pompino sull’autobus e, come si dice, abbiamo giocato l’uno con l’altra.
Sapendo che la sua suprema essenza perfetta era mia (quando sarò più lucido ti racconterò tutta la sua storia e la ragione psicologica per cui mi ama) non potevo concepire alcun ostacolo al mio soddisfacimento, beh diciamo che a volte anche i piani più perfetti possono essere rovinati, e la mia nemesi era sua sorella, la stronza.
Pat mi aveva detto che il motivo per cui stava andando a St. Louis era fare visita a sua sorella. Le aveva mandato un telegramma per dirle di trovarsi in stazione. Quindi, per sbarazzarci di sua sorella, quando siamo arrivati a St. Louis alle 4 ci siamo guardati intorno per vedere se fosse presente. Altrimenti, Pat avrebbe preso la valigia, si sarebbe cambiata nei bagni, e avremmo proceduto per una stanza d’albergo verso una notte (anni?) di perfetta beatitudine. La sorella non si vedeva, quindi Lei (non la più importante) aveva preso la sua valigia e si era ritirata nei bagni per cambiarsi. --- trattino lungo ---
Il paragrafo successivo deve essere scritto per forza in modo oggettivo --
Edith (sua sorella) e Patricia (il mio amore) uscirono dai cessi mano nella mano (non posso descrivere le mie emozioni). Sembrava che Edith fosse arrivata alla stazione degli autobus prima del tempo e mentre aspettava Patricia, avendo sonno, si era ritirata per addormentarsi su un divano. Per questo io e Pat non l’avevamo vista.
I miei sforzi disperati per liberarla da Edith fallirono, e anche il terrore e il senso di sottomissione nei confronti della sorella da parte di Pat, che fino a poco prima si era sentita così ribelle da dichiarare che avrebbe detto di dover vedere “qualcuno” e che avrebbe così incontrato Edith più tardi, anche questo condusse tutto al fallimento. Edith era sveglia; ha visto cosa stava accadendo tra me e lei.
Beh, per farla breve. Io e Pat, lì in piedi in stazione (in bella vista davanti a sua sorella) afferrandoci freneticamente, giurammo di non amare mai più nella vita, e poi ho preso l’autobus per Kansas city e Pat, docilmente, se ne è andata a casa con la sua dominante sorella. Ahimè, ahimè…
In uno stato di delusione totale (prova a condividere il mio sentimento) ho preso posto, mentre l’autobus avanzava verso Kansas city. A Columbia, Mo. una giovane (19) vergine, perfettamente passiva (la mia carne) è salita e ha condiviso il mio posto a sedere…Vista la mia delusione per aver perso Pat, la perfetta, decisi di star seduto sull’autobus (dietro al conducente) in piena luce del giorno e di sedurla, dalle 10.30 alle 2.30 del pomeriggio ho parlato. Quando avevo terminato, lei (confusa, tutta la sua vita messa sottosopra, metafisicamente meravigliata nei miei confronti e piena di passione nella sua immaturità) ha chiamato i suoi a Kansas city, ed è venuta con me in un parco (stava proprio facendosi buio), e l’ho scopata; mai scopato così prima. Tutte le mie emozioni represse che trovavano sollievo in questa giovane vergine (lo era) che tra l’altro era una maestra di scuola! Immaginati, aveva fatto due anni al Mo. St. Teacher's College e adesso insegna alle scuole medie (sono al di là del pensare ragionevolmente).
Sto per smettere di scrivere. Oh, si, per liberarmi un attimo dalle mie emozioni, devi leggere Le anime morte, alcune sue parti (in cui Gogol mostra le sue visioni) sono parecchio come te.
Elaborerò questo in seguito (probabilmente?), ma al momento sono ubriaco e felice. Sulle allegre note di Jumping at Mesners dei Les Youngs (che sto ascoltando adesso) chiudo fino a dopo.
Al mio fratello
Continua così!
N.L. Cassady

***
Allen GinsbergLettera di Neal Cassady ad Allen Ginsberg (Denver, Colorado, 10 aprile 1947)
…non mi interessa quello che pensi, è quello che voglio. Se riesci a capire, e se riesci a vedere come sei stato il mio pastore in tutta la grande città per 9 mesi, allora, forse, andrai in Europa con me la prossima estate, va bene, grandioso e meraviglioso, proprio quello che voglio e sennò, beh, perché no? Veramente, cavolo, perché no? Pensi che io non ti merito? Pensi che non mi adatterei? Presumi che ti tratterei male o anche peggio? Senti che non sono abbastanza brillante? Sai che sarei aggressivo o esigente, o che proverei a succhiarti finché rimani a secco di tutto quello che possiedi intellettualmente? O si tratta semplicemente del fatto che tu, quasi inconsciamente, sappia della mancanza di interesse nei miei confronti, o dell’indifferenza al mio tormento e al mio bisogno di te, fino a credere che tutti i problemi per aiutarmi e per vivere con me, non si possano compensare con lo stare con me. Non posso promettere proprio un cavolo, so di essere bisessuale, ma preferisco le donne, c’è una linea più sottile di quello che pensi tra la mia attitudine all’amore e la tua, non preoccuparti, si metterà in riga. Al di là di questo, chi lo sa? Proviamoci e vediamo che succede, ok?…
Rilassati, amico, pensaci a quello che dico, e immaginati mentre ti muovi verso di me senza richieste compulsive causate dalla mancanza di sicurezza, che ti amo, o perché ti manca quella certezza di sapere che ti capisco, ecc. Dimenticati tutto questo e prova a vedere se in questo oblio non ci sia più pace dei sensi e perfino un piacere fisico maggiore rispetto al tuo attuale desiderio soggettivo (o per me, o Claude, o chiunque altro). So che uno non si può cambiare completamente con questo metodo, ma vieni da me con tutto quello che hai, buttami le tue domande in faccia (perché le amo), e trova una reale vicinanza, non solo perché quello che possiedo emotivamente viene distorto anche dalla solitudine ma perché io, logicamente o no, sento di volerti più di tutti, a questo livello.
Sono proprio stanco morto, a letto, e la conoscenza di un sollievo, perché so che devi capire e fare le tue mosse assieme a me in questo, è meglio che non lotti contro questa cosa, o contro qualsiasi altra maledetta cosa, quindi chiudi il becco, rilassati, trova un po’di pazienza, e adattati ai miei piani sdolcinati.
Con amore e baci, ragazzo mio opps! Scusa, non sono Babbo Natale, giusto? Oh beh allora solo:
Con amore e baci,

http://www.sulromanzo.it/blog/la-lettera-che-ispiro-jack-kerouac-per-sulla-strada

lunedì 20 giugno 2016

Alceo. Ode a Melanippo: Bevi, o Melanippo (e ubriacati), insieme a me. Che (cosa credi,) che una volta che avrai varcato il vorticoso Acheronte avendo attraversato il grande (guado), di nuovo potrai vedere la luce pura del sole?

 Alceo (fr. 33) e la sua famosa ode a Melanippo:
come Orazio anche Alceo sembra indulgere al “carpe idem” ma in forma diversa.
Il giovane Alceo ama la vita ardentemente;
la vita per lui è la pura luce del sole, che non risplende per i morti.

πῶ[ί]νε […] Μελάνιππ' ἄμ' ἔμοι. τι [γάρ]
ότ'άμε[ιΨε διννάεντ' Ἀχέροντα, μέγ[ˉ - ˇ]
ζάβαι[ς, ἀ]ελίω κόθαρον φάος [ήλθέ τις
ὄψεσθ'; ἀλλ' ἄγι μὴ μεγάλων ἐπ[ιβάλλεο.
καὶ γὰρ Σίσυφος Αἰολίδαις βασίλευς […
ἄνδρων πλεῖστα νοησάμενος
ἀλλὰ καὶ πολύιδρις ἔων ὐπὰ κᾶρι
διννάεντ' Ἀχέροντ' ἐπέραισε˙ μ[έγας
[α]ὐτῷ μόχθον ἔχην Κρονίδαις βα[ρυν
μελαίνας χθόνος. ἀλλ' ἄγι μὴ τὰ [κάτω φρόνη,
[ἔσ]τ' ἀβάσομεν, αἴ ποτα κἄλλοτα […
Bevi, o Melanippo (e ubriacati), insieme a me.
Che (cosa credi,) che una volta che avrai varcato il vorticoso Acheronte
avendo attraversato il grande (guado), di nuovo
potrai vedere la luce pura del sole?
Ma suvvia non (aspirare) a cose troppo grandi
e infatti Sisifo, sovrano figlio di Eolo
che era il più accorto fra gli uomini (credeva) di...
ma pur essendo molto astuto varcò (per due volte)
soggiacendo al destino di morte il vorticoso Acheronte:
il sovrano figlio di Crono gli (impose) di avere una (grande)
pena sotto la scura terra. Ma suvvia non (pensare a) queste cose
finché siamo giovani se mai anche altra volta (ora si deve)
(sopportare) le sventure che (un dio eventualmente ci imponga)
...il vento di tramontana (infuria sul mare).

mercoledì 15 giugno 2016

La Magna Charta




15 GIUGNO 1215: LA MAGNA CHARTA LIBERTATUM.
Quel lontano giorno in Inghilterra, a Runnymede Meadow un'area lungo il Tamigi nella contea di Surrey , il re Giovanni Senzaterra apponeva il proprio sigillo ad un documento che viene considerato il primo riconoscimento dei diritti e delle libertà su cui si fondano le moderne democrazie: la Magna Charta Libertatum.

Inizialmente la Magna Carta, scritta in latino, era un normale trattato di pace tra il re ed i baroni stanchi di pagare tasse sempre più alte per finanziare le spese del sovrano. La Carta è composta da 63 articoli per un totale di 3.550 parole, ma le clausole più importanti sono la 39 e la 40, che stabiliscono il principio fondamentale di quello che oggi chiamiamo lo Stato di diritto.
Due mesi dopo averla concessa, re Giovanni chiese a papa Innocenzo III di annullarla, ottenendo una bolla pontificia in tal senso. Sotto re Enrico III la Magna Carta fu riemessa in suo nome, e, nel 1225 al compimento della maggiore età fu lui stesso a sigillarne la versione definitiva. Della versione del 1215 sono sopravvissute solo 125 copie.

I princìpi che costituiscono il cuore della Magna Carta hanno ispirato molti documenti storici: Thomas Jefferson li inserì nella Dichiarazione di Indipendenza americana e nel Bill of Rights, la prima parte della Costituzione degli Stati Uniti. Gandhi citò il documento nella lettera d'addio che scrisse quando lasciò il Sudafrica, nel 1914. Richiami risuonano anche nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e nella Convenzione europea sui diritti dell'uomo del 1950..
Pur essendo un documento di tipo feudale, nel mondo anglo-sassone la Magna Charta viene considerata un testo basilare per il riconoscimento dei diritti civili e politici. Gli articoli principali riguardavano:

- il divieto per il re di imporre nuove tasse senza aver ottenuto il consenso del "commune consilium regni", composto da arcivescovi, abati, conti e i maggiori baroni, da convocare con preavviso;

- la garanzia per tutti gli uomini di non poter essere imprigionati senza prima essere stati regolarmente processati

- la proporzionalità della pena rispetto al reato

- il futuro principio della legittima resistenza all'oppressione di un governo ritenuto ingiusto

- l'integrità e libertà della Chiesa inglese

- veniva inoltre concesso a tutti i mercanti il diritto gratuito di ingresso e di uscita dal paese (tranne quelli provenienti da Paesi in conflitto con l'Inghilterra).

Antonio A. – Fonte: National Geographic

martedì 7 giugno 2016

La Nave dei Folli. Piangere fa bene. Sa lei come dicono in Turchia? Dicono che le lacrime lavano gli occhi e poi uno ci vede meglio

Piangere fa bene. Sa lei come dicono in Turchia?
Dicono che le lacrime lavano gli occhi e poi uno ci vede meglio
da La Nave dei Folli (film 1965) Lowenthal a Elsa


Berit Hildre 1964, pittrice e scultrice francese

** La nave dei folli (Ship of Fools) è un film del 1965 diretto da Stanley Kramer.
Scritto da Abby Mann, ispiratosi al romanzo omonimo (1962) di Katherine Anne Porter, è stato l'ultimo film dell'attrice Vivien Leigh






sabato 4 giugno 2016

Mohammed Alì. Io, nero, non combatterò contro i gialli per conto dei bianchi

Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Ali, un nome libero. Vuol dire amato da Dio. Voglio che la gente lo usi quando mi parla e parla di me.
Muhammad Ali


Io, nero, non combatterò contro i gialli per conto dei bianchi.
Mohammed Alì

Non ho alcun risentimento verso i Vietcong. Nessuno di loro mi ha mai chiamato negro...Non farò 10.000 miglia per andare a uccidere e bruciare delle persone e dare seguito alla dominazione degli schiavisti bianchi. È arrivato il tempo in cui questa ingiustizia abbia fine.
Mohammed Alì


Perché dovrebbero chiedermi di indossare un'uniforme e andare a 10.000 miglia da casa e sparare bombe e proiettili su gente scura in Vietnam, mentre i cosiddetti negri a Louisville sono minacciati come cani e si vedono negati i semplici diritti umani?
No, non andrò a 10.000 miglia da casa per aiutare a uccidere e incendiare un'altra povera nazione semplicemente per continuare la dominazione degli schiavisti bianchi sulla gente scura in tutto il mondo. Questo è il giorno in cui tali mali devono arrivare a una fine. Sono stato avvisato che prendere questa posizione mi costerà milioni di dollari. Ma l'ho già detto una volta e lo dirò ancora. Il vero nemico della mia gente è qui. Non disonorerò la mia religione, la mia gente o me stesso diventando uno strumento per schiavizzare chi sta combattendo per la sua giustizia, libertà e uguaglianza.
Se pensassi che la guerra portasse libertà e uguaglianza ai 22 milioni di persone della mia gente non dovrebbero arruolarmi, mi unirei domani. Non ho niente da perdere difendendo le mie convinzioni. Andrò in galera, e allora?
Noi siamo stati in galera per 400 anni.
Muhammad Alì

http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/muhammad-ali-il-rifiuto-alla-guerra-in-vietnam-loro-non-mi-hanno-chiamato-negro/241933/241933

venerdì 3 giugno 2016

Mordechai Richler. La versione di Barney. "Lei è uno strizzacervelli?" "Sì." "Allora lasci che le dica una cosa. Non sono mai andato d'accordo con sciamani, stregoni o psichiatri. Della condizione umana hanno capito molto più Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi. Siete una banda di ciarlatani sopravvalutata, che si ferma alla grammatica dei problemi umani, mentre gli scrittori che le ho nominato badano all'essenza. E non mi piacciono le etichette vacue che appiccicate alla gente, nè le parcelle che chiedete per perizie di parte. E non mi piacete in tribunale, uno per la difesa, l'altro per l'accusa, due cosiddetti esperti, l'un contro l'altro armati, ma entrambi col portafogli gonfio. Voi giocate con la testa delle persone, e siete inutili, se non dannosi. Inoltre, stando a quanto ho letto di recente, avete abbandonato il lettino per i farmaci, come del resto anche il mio amico Morty. Paranoia? Prenda questo due volte al dì. Schizofrenia? Sciolga questo in bocca prima dei pasti. Io prendo un whisky al malto e un Montecristo per tutto, e le consiglio di fare altrettanto. Fanno duecento dollari, grazie!

La versione di Barney
Incipit
Tutta colpa di Terry. È lui il mio sassolino nella scarpa
E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l'altro mettendomi a scribacchiare un libro alla mia veneranda età violo un giuramento solenne, ma non posso non farlo. Non posso lasciare senza risposta le volgari insinuazioni che nella sua imminente autobiografia Terry McIver avanza su di me, le mie tre mogli (o come dice lui la troika di Barney Panofsky), la natura della mia amicizia con Boogie e, ovviamente, lo scandalo che mi porterò fin nella tomba. Il tempo, le febbri, questo il titolo della messa cantata di Terry, è in uscita per i tipi del Gruppo (chiedo scusa, il gruppo, si scrive così), una piccola casa editrice di Toronto che gode di lauti sussidi governativi e pubblica (su carta riciclata, potete scommetterci la testa) anche un mensile, «la buona terra».
Mordecai Richler, La versione di Barney



"Lei è uno strizzacervelli?" "Sì." "Allora lasci che le dica una cosa.  Non sono mai andato d'accordo con sciamani, stregoni o psichiatri.  Della condizione umana hanno capito molto più  Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi.  Siete una banda di ciarlatani sopravvalutata,  che si ferma alla grammatica dei problemi umani,  mentre gli scrittori che le ho nominato badano all'essenza.  E non mi piacciono le etichette vacue che appiccicate alla gente,  nè le parcelle che chiedete per perizie di parte.  E non mi piacete in tribunale, uno per la difesa, l'altro per l'accusa,  due cosiddetti esperti, l'un contro l'altro armati,  ma entrambi col portafogli gonfio.  Voi giocate con la testa delle persone, e siete inutili, se non dannosi.  Inoltre, stando a quanto ho letto di recente,  avete abbandonato il lettino per i farmaci,  come del resto anche il mio amico Morty.  Paranoia? Prenda questo due volte al dì.  Schizofrenia? Sciolga questo in bocca prima dei pasti.  Io prendo un whisky al malto e un Montecristo per tutto,  e le consiglio di fare altrettanto. Fanno duecento dollari, grazie!
Mordechai Richler. La versione di Barney.


Ho sessantotto anni, porca puttana, e non capisco dove possa essermeli beccati.
Mordecai Richler, La versione di Barney, p. 442


Ma guardami pensavo, alla mia età sono qui a rimorchiare mignotte, e tutto perché mi hai lasciato.
Mi sono portato a letto la Vita di Samuel Johnson, libro da cui non mi separo mai - più che altro perché, casomai spirassi nel sonno, è quello che vorrei mi trovassero sul comodino.
Mordecai Richler, La versione di Barney


Ma ho anch'io i miei princìpi.
Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.
Mordecai Richler, La versione di Barney


Miriam ordinò la zuppa di piselli e io, chissà perché, quella di aragosta, che mi fa schifo. E mentre la Prince Arthur Room cominciava a basculare, cercavo disperatamente una battuta fulminante, un aforisma letale, capace di stendere Miriam e far impallidire il ricordo di Oscar Wilde. Risultato, mi sentii pronunciare le seguenti parole: “Ti piace vivere a Toronto?”
Mordecai Richler, La versione di Barney


Nel mio caso, non c'era la lettera di papà 
che non si chiudesse con una frecciata delle sue: 
"Te lo ricordi Yankel Schneider, quello che balbettava? 
Ma tu pensa, adesso fa l'avvocato, e si è comprato una Buick".
Mordecai Richler, La versione di Barney


[...]Ma ho anch'io i miei principi. 
Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.
Mordecai Richler, La versione di Barney




La verità è che di tanto in tanto adoro ritirarmi nel cottage,
la scena del mio presunto assassinio,
e aggirarmi con un bicchiere in mano per le stanze vuote
dove un tempo risuonavano le risate di Miriam
e gli strilli gioiosi dei bambini.
Sfoglio i vecchi album di fotografie,
tirando su col naso come un vecchio rimbecillito.
Mordecai Richler, La versione di Barney


Mentre Tiziano mischiava rosa e celestino
la modella se ne stava appollaiata su un gradino.
La vostra, disse Tiziano, più che una posizione
è un chiaro invito alla fornicazione.
E così si arrampicò fino in cima
per darle una bella lezioncina.
Mordecai Richler, La versione di Barney



Poi ci descrisse il suo primo briefing, 
ripetendo parola per parola il discorso 
del comandante agli equipaggi: 
"Aprite le orecchie, signorine. 
Che non vi venga in mente di inventarvi un problemino meccanico 
che vi ha costretto a sganciare sul primo pascolo 
a cinquecento chilometri dall'obiettivo e a tornare dritti a casa. 
Col cazzo. Guardatevene bene. 
Tradireste la fiducia delle americane 
che lavorano in fabbrica al posto vostro, 
e soprattutto degli imboscati che fanno milioni al mercato nero 
e si fottono le vostre fidanzate. 
Non vi conviene neppure provarci, con me. 
Cagatevi pure addosso, ma non venite a raccontarmelo". 
E poi concluse: "Tanto, di qui a tre mesi due terzi di voi saranno morti. 
Qualche domanda idiota?".
Mordecai Richler, La versione di Barney



"Senti, Miriam è a Toronto, e tu sei qui. Divertiti un po'".
"Non capisci".
"No, sei tu che non capisci.
Alla mia età non rimpiangerai le marachelle
che hai fatto, ma quelle che non hai fatto".
Mordecai Richler, La versione di Barney


Non conoscendo ancora le gioie della paternità,
ero prodigo di consigli. "Se avessi dei figli li manterrei fino a ventun anni,
poi dovrebbero cavarsela da soli. Ci deve pur essere un limite."
"Certo che c'è. La tomba."


Ah, davvero” dico, mettendo via l'ennesimo rancorino da covare in santa pace.
Secondo Miriam era quella la mia vera passione.
C'è chi colleziona francobolli, o scatole di fiammiferi” mi ha detto una volta. 
“Tu collezioni rancori".
Mordecai Richler, La versione di Barney



...ci vogliono settantadue muscoli per fare il broncio
ma solo dodici per sorridere.
Provaci per una volta.
Mordecai Richler, da Solomon Gursky è stato qui, Adelphi


Un ragazzo può essere due, tre, quattro persone potenziali,
ma un uomo una sola: quella che ha ucciso le altre.
Mordecai Richler, da L'apprendistato di Duddy Kravitz, Adelphi, Milano 2006



"Lei è uno strizzacervelli?"
"Sì."
"Allora lasci che le dica una cosa. 
Non sono mai andato d'accordo con sciamani, stregoni o psichiatri.
Della condizione umana hanno capito molto più 
Shakespeare, Tolstoj o persino Dickens di chiunque di voi.
Siete una banda di ciarlatani sopravvalutata,
che si ferma alla grammatica dei problemi umani,
mentre gli scrittori che le ho nominato badano all'essenza.
E non mi piacciono le etichette vacue che appiccicate alla gente,
nè le parcelle che chiedete per perizie di parte.
E non mi piacete in tribunale, uno per la difesa, l'altro per l'accusa,
due cosiddetti esperti, l'un contro l'altro armati,
ma entrambi col portafogli gonfio.
Voi giocate con la testa delle persone, e siete inutili, se non dannosi.
Inoltre, stando a quanto ho letto di recente,
avete abbandonato il lettino per i farmaci,
come del resto anche il mio amico Morty.
Paranoia? Prenda questo due volte al dì.
Schizofrenia? Sciolga questo in bocca prima dei pasti.
Io prendo un whisky al malto e un Montecristo per tutto,
e le consiglio di fare altrettanto. Fanno duecento dollari, grazie!
Mordechai Richler, La versione di Barney



Diffidava degli estranei, e ancor più degli amici.
Era allergica ai frutti di mare, alle uova, al pelo di animale,
alla polvere, e a chiunque non fosse pazzo di lei.
Durante il ciclo soffriva di mal di testa, crampi, nausea,
ed era di un umore schifoso. (…)
Detestava i ragni, i serpenti, l'acqua, la gente.
E io, lettore, questa donna l'ho sposata.
All'epoca ero un ventitreenne arrapato,
ma certo non perché Clara
fosse una pantera del materasso.
Ciò che nutriva la nostra storia d'amore
(alla fine di questo si trattò)
non succedeva tra le lenzuola.
Mordecai Richler, La Versione di Barney



Il seguito Boogie se l'era inventato lì per lì,
ne sono sicuro.
Funzionava più o meno così:
due anni dopo il protagonista è in carrozza
con l'Arciduca d'Austria-Ungheria
Francesco Ferdinando e signora.
A un certo punto le ruote
sobbalzano e al nostro cade il binocolo da teatro.
L'Arciduca, noblesse oblige,
si china a raccoglierlo,
e così facendo scampa all'attentato di un fanatico serbo.
Ciò nonostante, un paio di mesi dopo
la Germania invade il Belgio.
Mordecai Richler, La Versione di Barney




Comunque per me il destino non aveva in serbo fama, ma ricchezza
Una ricchezza, va detto, di umili origini. 
Il mio primo mentore fu infatti Yossel Pinsky, 
un sopravvissuto di Auschwitz 
che ci cambiava i dollari a mercato nero 
dietro la tendina di un fotografo di me des Rosiers. 
Una sera Yossel venne all'Old Navy, si sedette al mio tavolo, 
ordinò una tazza di café filtre in cui lasciò cadere sette zollette di zucchero, 
e disse: «Mi serve qualcuno con un passaporto canadese valido».
«Per fare?». «Soldi. Che altro ci resta da fare, scusa?» 
chiese tirando fuori un coltellino dell'esercito svizzero 
col quale cominciò a pulirsi le unghie superstiti. 
«Ma prima bisogna che tu e io ci conosciamo un po' meglio. 
Hai già mangiato?». «No». «Allora andiamo a cena. 
Guarda che non ti mordo mica. Su, piccolino, vieni».
Ed ecco come di lì a un anno, sotto la guida di Yossel, 
mi ritrovai a esportare formaggi francesi 
verso il sempre più benestante Canada del dopoguerra. 
Poi, appena rientrato in patria, 
Yossel mi procurò anche una licenza di esportazione per la Vespa, 
che allora da noi andava a ruba. 
E insomma negli anni, sempre in società con lui, 
ho trattato un po' di tutto: olio d'oliva, scampoli, rottami di ferro 
comprati e venduti senza averli nemmeno mai visti, DC-3 in disarmo 
(alcuni dei quali volano ancora a nord del Sessantesimo parallelo); 
e dopo che Yossel, bruciando di un soffio la Gendarmerie, 
si fu trasferito in Israele, persino reperti egizi trafugati dalle tombe minori della Valle dei Re. 
Ma ho anch'io i miei princìpi. 
Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.
E alla fine sono diventato un peccatore
Nell'ultimo scorcio degli anni Sessanta ho cominciato a produrre film canadesi che non hanno mai, dico mai, tenuto per più di un'imbarazzante settimana in nessun cinema del pianeta, ma che attraverso una scappatoia fiscale all'epoca praticabile hanno fruttato a me, e in qualche caso ai miei finanziatori, centinaia di migliaia di dollari. Subito dopo ho cominciato a sfornare serie televisive di ambientazione locale, sì, ma abbastanza fesse da poter essere vendute anche negli Stati Uniti - quando non in Gran Bretagna o persino altrove, come nel caso di Giubba Rossa Mclver: presente, che nonostante tutte quelle scenette incresciose tra canoe e igloo ha avuto un'audience inimmaginabile.
A richiesta, come qualsiasi canaglia con l'acqua alla gola, ero perfettamente in grado di suonare il piffero del patriottismo contemporaneo
Ogni volta che un ministro, o un paladino del libero mercato al soldo degli americani, minacciavano di affossare la legge a tutela (o meglio a sostegno, a sontuoso sostegno) del pattume autarchico con cui appestavamo l'etere, io mi calavo all'istante nei panni del filisteo, o di Capitan Canada se preferite, e mi presentavo in commissione. 
«Il nostro unico intento è far conoscere il Canada ai canadesi» spiegavo. «Siamo la memoria di questo paese, la sua anima, la sua essenza, l'estremo baluardo contro l'orrendo imperialismo culturale che preme alle nostre frontiere meridionali e minaccia di sopraffarci». 
Ma sto divagando.
Per tornare ai nostri giorni in terra straniera, noi provinciali d'assalto, pazzi di felicità per il solo fatto di essere a Parigi, storditi da tutta la bellezza intorno a noi, avevamo quasi paura di rientrare nelle nostre stanze ammobiliate sulla Rive Gauche. Già, perché nulla ci assicurava che non ci saremmo risvegliati a casa, con papà e mamma che ci rinfacciavano le ingenti somme dilapidate nella nostra istruzione e dichiaravano giunto anche per noi il momento di tirare la carretta. Nel mio caso, non c'era lettera di papà che non si chiudesse con una frecciata delle sue: 
«Te lo ricordi Yankel Schneider, quello che balbettava?  
Ma tu pensa, adesso fa l'avvocato, e si è comprato una Buick».
Del nostro gruppo di sciamannati facevano parte un paio di sedicenti pittori newyorkesi, oltre a quella sciroccata di Clara e a quell'intrigante di Leo Bishinsky, che preparava la sua ascesa artistica molto meglio di quanto Wellington avesse preparato la sua battaglia in quel paesucolo belga. Ma sì, quando per andare a combattere aveva piantato a metà un ballo. 
O una partita di bocce? No, quello era Drake.
Leo aveva lo studio in un garage di Montparnasse, dove lavorava ai suoi immani trittici mischiando i colori in grandi secchi, e poi applicandoli sulla tela con uno strofinaccio da cucina. A volte lo faceva mulinare sopra la testa, poi arretrava di qualche passo e lo lanciava. Un giorno che ero passato da lui a farmi una canna me lo porse. «Dai, prova tu».
«Dici sul serio?».
«Perché no?».
Avrei scommesso qualsiasi cosa che Leo si sarebbe presto tagliato barba e capelli 
e sarebbe diventato un pubblicitario di New York. Mi sbagliavo, e di grosso.
Però, chi l'avrebbe mai detto che quarantanni dopo 
gli obbrobri di Leo sarebbero stati esposti  alla Tate, al Guggenheim, al MOMA, 
alla National Gallery di Washington, e contesi all'asta da piazzisti di titoli ad alto rischio 
e speculatori vari - sempre che all'asta non partecipino i collezionisti giapponesi. 

E chi avrebbe mai detto che quello scassone di Renault, la Due Cavalli su cui Leo andava in giro, sarebbe un giorno stato sostituito nel garage di Amagansett da gingilli quali una Rolls Silver Cloud, una Morgan d'epoca, una Ferrari 250 e un'Alfa Romeo. O che oggi citarlo anche solo di sfuggita potrebbe valermi l'accusa di millanteria -almeno da quando Leo è apparso sulla copertina di «Vanity Fair» in tenuta mefistofelica, con tanto di corna, mantello foderato di rosso e coda, mentre dipinge simboli magici sul corpo nudo della sgallettata del mese.
Ai bei tempi capire chi Leo si stesse sbattendo era piuttosto semplice: 
bastava aspettare che una ragazza del Nebraska in twin-set di cachemire e filo di perle, a Parigi per il piano Marshall, si sedesse tout court al nostro tavolo della Coupole cacciandosi le dita nel naso con estrema disinvoltura. Oggi invece le modelle famose si accalcano davanti alla villa di Leo a Long Island contendendosi il privilegio di offrirgli quei peli pubici che poi, insieme a vetrini raccolti sulla spiaggia, lische di pesce, bucce di salame e unghie tagliate, andranno a finire nei suoi quadri.

Ma nel 1951 la mia banda di dilettanti allo sbaraglio ostentava il proprio affrancamento da quello che allora veniva sempre e solo chiamato, de haut en bas, il mercato delle vacche. Nel quale peraltro chiunque di loro, con la fulgida eccezione di Bernard «Boogie» Moscovitch, avrebbe venduto la madre pur di entrare. Era tutto un farsi le scarpe a vicenda, come nell'Uomo dell'organizzazione o nell'Uomo dal vestito grigio, sempre che qualcuno di voi sia abbastanza vecchio da ricordare quegli effimeri best seller, tipo Colin Wilson o l'hula-hoop. Erano tutti assatanati, come un morto di fame di St. Urbain Street che si è giocato anche la camicia su una nuova linea di abbigliamento doposcì. Solo che loro andavano in giro a vendere romanzi. Innovativi, come aveva prescritto Ezra Pound prima che lo sbattessero in manicomio. Ma attenzione, a loro mica toccava fare il giro dei grandi magazzini con la valigetta di campioni, affidandosi, per citare Clifford Odets, «a un sorriso e a un paio di scarpe lucidate». No, loro la mercanzia - comprensiva di busta affrancata per la restituzione - la sbolognavano a redattori di riviste e di case editrici. 
Tutti a parte Boogie, l'unto di Barney Panofsky.
Alfred Kazin ha scritto che anche da giovane, quando non se lo filava nessuno, 
Saul Bellovv aveva l'aria di uno destinato a grandi cose. 
Ecco, io pensavo lo stesso di Boogie. 
Per questo era così magnanimo verso gli altri giovani scrittori: perché comunque il migliore era lui.

Nelle giornate storte Boogie era bravissimo a eludere le domande sul proprio lavoro con qualche buffonata. «Prendete me,» disse una volta «ho tutti i difetti di Tolstoj, Dostoevskij e Hemingway messi insieme. Fotterei qualsiasi contadinotta mi capitasse a tiro. Ho il vizio del gioco. Bevo. Ali, e sono antisemita almeno quanto Freddy Roosevelt, anche se nel mio caso forse non conta, essendo al contempo ebreo. Insomma non mi manca niente. Sì, giusto una Jasnaja Poljana tutta per me, il riconoscimento del mio prodigioso talento, e i soldi per andare a cena stasera. 
A meno che qualcuno non mi imiti, vero Barney?».
Boogie, cinque anni più vecchio di me, aveva partecipato allo sbarco di Omaha Beach ed era sopravvissuto alla battaglia delle Ardenne. A Parigi si arrabattava grazie al sussidio dei reduci, un centinaio di dollari al mese, e al piccolo assegno che gli mandavano da casa - e che peraltro investiva quasi sempre, con alterne fortune, a un tavolo di chemin de fer dell'Aviation Club.

Bene, potete anche scordarvi la perfida calunnia che mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni, e che di recente quel bugiardo di Terry McIver ha rimesso in circolazione. La verità è che Boogie è stato il mio migliore amico. L'ho adorato. Dopo qualche canna, o anche solo una bottiglia di vin ordinaire, riuscivo sempre a estorcergli almeno una storia di famiglia. Come quella di suo nonno Moishe Lev Moscovitch, nato a Bialystok ma partito da Amburgo in terza classe alla volta degli Stati Uniti, dove aveva cominciato come pollivendolo ambulante e poi, lavorando venti ore al giorno e togliendosi il pane di bocca, era diventato proprietario di una macelleria kosher nel Lower East Side. Il suo primogenito, Mendel, aveva trasformato la macelleria nella Peerless Gourmet Packers, che durante la seconda guerra mondiale forniva razioni K all'esercito americano. In seguito la Peerless era entrata nella grande distribuzione, vendendo ai grandi magazzini dello Stato di New York e del New England confezioni di prosciutto Virginia Plantation, salsicce Olde English, costolette Mandarin, e le Granny's Gobblers (che erano porzioni di tacchino precotto e surgelato). Nel frattempo Mendel, dopo aver assunto il nome assai più presentabile di Matthew Morrow, si era comprato un appartamento di quattordici stanze in Park Avenue, e aveva assunto una domestica, un cuoco, un maggiordomo facente funzioni di autista, e una governante inglese di Old Kent Road nelle cui mani aveva messo il suo primogenito, Boogie - che in seguito sarebbe dovuto andare a scuola di dizione per togliersi l'accento cockney

Invece che a lezione di violino o dal tipico melamed ebraico, Boogie, sul quale la famiglia contava per infiltrarsi nella roccaforte dei WASP, fu spedito in un campo militare estivo nel Maine. 
«Secondo loro avrei imparato a cavalcare, sparare, andare in vela, giocare a tennis e porgere l'altra guancia». Al momento di riempire il modulo d'iscrizione Boogie aveva seguito alla lettera le istruzioni materne, specie per quanto riguardava la casella «confessione religiosa». Ma guardandolo in faccia il comandante del campo gli aveva fatto l'occhiolino, dopodiché aveva cancellato con un frego il «nessuna» di Boogie sostituendolo di suo pugno con «ebraica». Comunque Boogie aveva superato la prova, anche se poi aveva mollato Harvard durante l'anno propedeutico (che era il 1941) per arruolarsi come soldato semplice: e col suo vero nome, Moscovitch.
Una volta, rispondendo al martellante interrogatorio di un Terry Mclver più molesto del solito, Boogie si lasciò sfuggire che nel capitolo d'apertura del suo tonitruante romanzo in fieri, ambientato nel 1912, il protagonista sbarcava dal Titanic, approdato senza incidenti al molo di New York dopo una traversata inaugurale. E qui veniva abbordato da una cronista, che voleva sapere come era stato il viaggio.
Risposta: «Noiosissimo».
Il seguito Boogie se l'era inventato lì per lì, ne sono sicuro. 
Funzionava più o meno così: due anni dopo il protagonista è in carrozza con più o meno così: due anni dopo il protagonista è in carrozza con l'Arciduca d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e signora. A un certo punto le ruote sobbalzano e al nostro cade il binocolo da teatro. L'Arciduca, noblesse oblige, si china a raccoglierlo, e così facendo scampa all'attentato di un fanatico serbo. 
Ciò nonostante, un paio di mesi dopo la Gemania invade il Belgio. Passa un po' di tempo, siamo nel 1917. Il nostro eroe (o meglio, l'eroe di Boogie) chiacchiera in un caffè di Zurigo con Lenin, dal quale cerca di farsi spiegare la teoria del plusvalore. Lenin si accalora un po' troppo nella discussione, indugia sul mille-feuille e il café au lait, e finisce per perdere il treno. 
Morale, il vagone piombato arriva alla Stazione Finlandia senza di lui.
«Che altro ti aspettavi da quel derelitto di Uljanov?» 
chiede il responsabile del comitato di accoglienza in attesa al binario. «E adesso cosa facciamo?».
«Potremmo chiedere a Trockij di dire qualche parola».
«Qualche parola? A Trockij? Se quello attacca il disco facciamo notte».
Insomma Boogie, come spiegò a Terry, stava assolvendo alla funzione primaria di ogni artista, e cioè ricreare un ordine dal caos.
«Lo sapevo che non avrei dovuto falli una domanda seria» disse Terry alzandosi dal tavolo.

Nel silenzio che seguì Boogie mi confidò di aver ereditato da Heine le droit de moribondage. 
Come se questo spiegasse tutto.

Boogie faceva spesso così, pescava da chissà quale recesso della mente una battuta che ammazzava la conversazione; il che non gli impediva di trascinarti subito dopo in biblioteca, dove riprendeva a occuparsi della tua formazione.

Gli volevo davvero bene, e mi manca da morire. 
Darei tutto quello che posseggo (be', non ci allarghiamo, metà) per vedere quell'enigma vivente, quello spaventapasseri di un metro e ottanta, il Romeo y Julieta fra i denti, entrare dalla porta col suo solito sorriso ambiguo e chiedermi: 
«Hai letto Thomas Bernhard?», oppure «Ma tu Chomsky lo capisci?».

Dio sa se non aveva anche lui il suo lato oscuro, e i suoi vezzi, come quello di sparire nel nulla per settimane intere: c'era chi diceva in una yeshivah di Meali Shearim, chi giurava in un monastero in Toscana, ma in realtà nessuno ne sapeva niente. Poi un bel giorno ricompariva - per essere più precisi, si materializzava - senza uno straccio di spiegazione in uno dei caffè che frequentavamo, accompagnato da una magnifica duchessa spagnola o da una contessa italiana.
Se bussavo alla sua camera d'albergo nel giorno sbagliato Boogie non mi rispondeva neanche, o tutt'al più ringhiava: «Sparisci. Lasciami in pace». E io sapevo che se ne stava a letto, fatto come una meringa, oppure alla scrivania, a compilare le liste dei suoi compagni di battaglia morti o dispersi.
È stato Boogie a farmi conoscere Goncarov, Huysmans, Celine e Nathanael West. 
Prendeva lezioni da un russo bianco, un orologiaio del quale era diventato amico. 
«Come si fa a vivere senza aver letto Dostoevskij, Tolstoj e Cechov in originale?» 
mi chiedeva sempre. Parlava correntemente tedesco ed ebraico, e una volta alla settimana andava da un rabbino della sinagoga di me Notre-Dame-de-Lorette (indirizzo che lo mandava in sollucchero) a studiare lo Zohar, il libro sacro della Kabbalah.
Anni fa avevo riunito gli otto racconti a chiave usciti a suo tempo su «Merlin», «Zero» e sulla «Paris Review» per farne un'edizione a tiratura limitata: copie numerate, veste tipografica curatissima, eccetera eccetera. Non intendevo badare a spese. Per ovvie ragioni il pezzo che mi aveva colpito di più, e che continuavo a rileggere, era Margolis, brillante (al solito) variazione su un tema tutt'altro che originale. Boogie racconta infatti di un tale che esce di casa per comprare le sigarette e non torna più dalla moglie e dal figlio, assumendo una nuova identità da tutt'altra parte.
Scrissi anche al figlio di Boogie, che viveva a Santa Fe, offrendogli un anticipo di diecimila dollari, più un centinaio di copie omaggio e tutti gli eventuali utili. Boogie Jr. mi mandò una raccomandata in cui si chiedeva come avessi anche solo potuto pensare una cosa del genere, proprio io, e mi avvisava che se fossi davvero arrivato a tanto mi avrebbe immediatamente fatto causa. 
A quel punto decisi di lasciar perdere.

Adesso telefono. Non ci posso credere. Non riesco a ricordarmi chi ha scritto L'uomo dal vestito grigio. O era L'uomo in gessato blu? No, quello è della bugiarda matricolata, Lillian vattelapesca. Lillian, Lillian? E su, lo sai benissimo. Come la maionese. Lillian Kraft? No. Ali, ecco, Hellman. Lillian Hellman. Come si chiama l'autore dell'Uomo dal vestito grigio non importa. Non me ne frega niente. Però ormai mi sono fissato, e se non mi viene in mente non riuscirò a chiudere occhio. 
Detesto questi vuoti di memoria. Ormai mi capita sempre più spesso. C'è da diventare matti.
Ieri notte, quando finalmente stavo per prendere sonno, mi sono reso conto di non ricordarmi come si chiama il coso per tirare su la minestra. Ma tu pensa. L'avrò usato un milione di volte. 
Lo vedevo come se ce l'avessi davanti agli occhi. Ma quel cazzo di nome, niente. Non avevo nessuna voglia di alzarmi dal letto e mettermi a scartabellare fra i libri di cucina che Miriam ha lasciato qui, anche perché mi avrebbe ricordato qualcos'altro, e cioè che se se ne è andata la colpa è solo mia. Senza contare che mi sarei dovuto comunque alzare più tardi, verso le tre, per la pisciatina di metà notte, e allora tanto valeva aspettare. Pisciatina, ho detto: non l'impetuoso getto schiumante dei giorni della Rive Gauche, cari miei, proprio no. Adesso è uno stillicidio, plic plic plic, e hai voglia a scrollare, l'ultimo goccetto ritardatario cola immancabilmente sulla gamba del pigiama.

Disteso al buio, imprecando, ho recitato a voce alta il numero da chiamare in caso di infarto.
«Siete in linea con il Montreal General Hospital. Se disponete di un apparecchio con toni in multifrequenza, e conoscete il numero dell'interno che vi interessa, digitatelo adesso. Altrimenti digitate 17 per il servizio nella lingua dei maudits anglais, o 12 per il servizio en francais, il meraviglioso idioma della nostra comunità oppressa».
Per il servizio ambulanze, digitare 21.
«Servizio ambulanze. Vi preghiamo di rimanere in linea. 
L'operatore risponderà appena finita la mano di strip-poker. 
Vi auguriamo una buona giornata».
Musica di cortesia, il Requiem di Mozart.

Ho tastato il comodino per assicurarmi che le pillole di digitale, gli occhiali da lettura e la dentiera fossero a portata di mano. Quindi ho acceso un attimo la lampada per dare una controllatina ai boxer. Volevo sincerarmi che non ci fossero strisciate sospette, perché nel caso muoia durante la notte non voglio passare per uno zozzone agli occhi di perfetti sconosciuti. Poi ho usato un trucco che di solito funziona: pensa a qualcos'altro, mi sono detto, qualcosa di rilassante, e il nome di quell'aggeggio infernale ti verrà in mente senza che tu nemmeno te ne accorga. Così ho visualizzato Terry Mclver che sanguinava copiosamente in un mare infestato di squali, e mentre l'elicottero di soccorso cercava di trarlo in salvo sentiva l'ultimo strattone alla gamba maciullata. Alla fine i poveri resti - un torso sgocciolante, in pratica - del borioso mentitore cui dobbiamo II tempo, le febbri venivano sollevati dall'acqua, come un'esca viva su cui gli squali, nella schiuma ribollente, continuavano ad avventarsi.

Alla fine mi sono trasformato nello scarruffato quattordicenne che ero un tempo, ed eccomi lì a sganciare per la prima, elettrizzante volta il reggiseno di pizzo dell'insegnante che qui chiamerò Mrs Ogilvy - senza farmi distrarre neppure dalla radio in soggiorno, che trasmette la canzonetta più cretina del mondo:

Mairzy-doats, 
and dozy doats, 
and little lamb seativy, 
a kid'lleativy too, 
wouldn't you?

Con mio grande stupore non incontro resistenza, tutt'altro. 
Oddio, Mrs Ogilvy si sta togliendo le scarpe e si sfila la gonna scozzese. 
«Non so cosa mi prende» dice la stessa insegnante che mi ha dato il massimo dei voti per un saggio sul Racconto di due città preso pari pari, giusto cambiando qualche frase, da un libro di Granville Hicks. «Questo è ratto di minore». Poi però, anche se non può saperlo, rovina tutto con una sola, severa, professorale domanda: 
«Ma non dovremmo prima versare il minestrone nei piatti, così si raffredda?».
«Certo. Come no. Ci vorrebbe quell'affare, come diavolo si chiama...».
«A me il minestrone piace freddo».
Deciso a concederle una seconda opportunità, con l'auspicio di un esito dìù confortante, 
ho ricominciato a sgranare i miei ricordi e sono tornato sul divano insieme a lei. 
Sotto sotto, speravo che un blando principio di erezione sarebbe giunto a rallegrare il mio squallido presente.
«Ma come siamo impazienti» fa lei. «Aspetta. En francais, s'il vous plait».
«Eh?».
«Oh, tesoro, cerca di essere un po' più educato. 
Sbaglio o non ti ho sentito dire "Prego"? 
E a proposito, come si dice "Non ancora" in francese?».
«Pas ancore».
«Bravissimo» fa lei, aprendo un cassetto. 
«Ora, non vorrei sembrarti una rompiscatole, 
ma dovresti proprio fare il bravo bambino e infilare questo affarino sul tuo bel pirillino».
«Sì, Mrs Ogilvy».
«Dammi la mano. Ma dico io, si sono mai viste unghie più luride? 
Ecco. Cooosì. Piano. Oh, sì, ti prego. Aspetta!». «Che ho fatto di male?».
«Mi è venuta in mente una cosa che forse può interessarti. 
L'uomo in gessato blu non l'ha scritto Lillian Hellman, ma Mary McCarthy».
Cazzo, cazzo e cazzo. Sono saltato giù dal letto, 
mi sono buttato addosso quello straccio di vestaglia da cui non riesco a liberarmi perché è un regalo di Miriam e ho ciabattato fino in cucina. Frugando nei cassetti ho tirato fuori gli utensili chiamandoli uno per uno col loro nome: cavatappi, frullino, schiaccianoci, pelapatate, colino, misurino, apriscatole, spatola... e, appeso a un gancio alla parete, eccolo lì, l'accidente per versare la minestra, come cavolo si chiama?
Sono sopravvissuto alla scarlattina, agli orecchioni, a due rapine a mano armata, alle piattole, all'estrazione di tutti i denti, a un'operazione all'anca, a un processo per omicidio e a tre mogli. 
La prima è morta, mentre la Seconda Signora Panofsky, nonostante sia passata un'eternità, al solo sentire la mia voce strillerebbe: «Assassino, cosa ne hai fatto del cadavere?», per poi sbattermi la cornetta in faccia. Miriam no, Miriam mi parlerebbe. Chissà, forse riderebbe dei miei tormenti. Magari queste stanze tornassero a riempirsi delle sue risate. Del suo profumo. Del suo amore. 
Il problema è che molto probabilmente risponderebbe Blair, e l'ultima volta quel bastardo spocchioso mi ha mandato tutto di traverso. «Vorrei parlare con mia moglie» gli ho detto.
«Non è più tua moglie, Barney. E tu in compenso sei ebbro».
«Ebbro». Certo, cos'altro può dire uno come lui. «Intendi sbronzo? 
Ovvio che sono sbronzo. Sono le quattro del mattino».
«E Miriam dorme».
«Ma guarda che è con te che volevo parlare. Vedi, Blair, stavo facendo pulizia nei cassetti, e mi sono venute per le mani certe magnifiche foto di nudo che avevo fatto a Miriam quando stavamo insieme. Mi chiedevo se non sarebbe più giusto che le tenessi tu. Così, tanto per sapere com'era da giovane».
«Sei uno schifoso». E su questo ha riattaccato.
Non del tutto falso. Comunque, schifoso o no, mi sono fatto un tip tap in giro per la stanza, con un bicchiere di Cardini in mano.
C'è gente che lo stima. Pensano che sia uno studioso di primordine. 
Persino i miei figli lo difendono. Ti capiamo, dicono, ma guarda che è una persona intelligente e premurosa, e vuole moltissimo bene a Miriam. Stronzate. Blair è un grigio burocrate e basta. 
È arrivato in Canada negli anni Sessanta, da Boston, per sottrarsi alla leva, come Dan Quayle e Bill Clinton. Questo agli occhi dei suoi studenti ne fa una specie di eroe, anche se personalmente la sola idea che si possa preferire Toronto a Saigon mi lascia basito. Ad ogni buon conto sono riuscito a procurarmi il numero del suo istituto, e ispirandomi a Boogie, che certamente si sarebbe sbizzarrito, ogni tanto gli sparo un bel fax.

Alt: Herr Doktor Blair Hopper nato Hauptman
Da: Sexorama
Note: Achtung, riservato

Herr Doktor,
in risposta alla sua del 26 gennaio ci pregiamo comunicarle che riteniamo la proposta da lei avanzata - quella di estendere al Victoria College l'usanza da tempo in auge nella Ivy League, dove ad alcune studentesse selezionate con cura si chiede di posare nude per foto artistiche di fronte, di profilo e di schiena - estremamente significativa. Troviamo altresì molto convincente il suo suggerimento circa l'introduzione di giarrettiere e altri accessori. Come lei stesso sottolineava, il progetto ha notevoli potenzialità commerciali. Tuttavia, prima di avviare la produzione di una nuova serie di carte da gioco, gradiremmo esaminare le foto in oggetto.
Con osservanza Dwayne Connors Sexorama

P.S. Abbiamo ricevuto la copia del calendario Giovani adoni 1995 che ha voluto restituirci. 
Pur comprendendo le sue esigenze, siamo tuttavia spiacenti di non poter procedere al rimborso: 
le pagine dei mesi di agosto e settembre risultano appiccicate.

L'una meno un quarto. Ho in mano - nella mia mano coperta di macchie brune, rugosa come un dorso di lucertola - il coso per la minestra, cui ancora non riesco a dare un nome. Lo scaravento da una parte, mi verso due dita di Macallan, sollevo la cornetta e chiamo il mio primogenito a Londra. «Ciao, Mike. Servizio sveglia. Sono le sei. È l'ora di farsi una bella sgambatina».
«A essere pignoli qui sono le sei meno un quarto, papà».
Scommetto che a colazione il mio meticoloso figlioletto biascicherà un po' di yoghurt ai quattro cereali, aiutandosi con un bel bicchiere d'acqua aromatizzata al limone. I giovani d'oggi.
«Ti senti bene?» mi chiede con una sollecitudine che trovo a dir poco commovente.
«Uno splendore. Ma ho un problemino. Come si chiama quell'arnese per versare la minestra?». 
«Sei ubriaco?». «Assolutamente no».
«Il dottor Herscovitch non ti aveva detto che se ricominciavi potevi lasciarci la pelle?».
«Non tocco un goccio da settimane, te lo giuro sulla testa dei miei nipoti. 
Non prendo neppure più il coqau vin al ristorante. 
E adesso per favore ti spiacerebbe rispondere alla mia domanda?».
«Aspetta, rimani lì. Mi sposto in salotto, così possiamo parlare».
E non svegliamo la Nazisalutista, ho pensato.
«Eccomi. Intendi il mestolo?».
«Certo, intendo proprio il mestolo. Ce l'avevo sulla punta della lingua. Anzi stavo per dirlo». 
«Le prendi le pillole?».
«Ma certo che le prendo. Notizie di tua madre?». 
Mi è scappato. Avevo giurato di non fare mai più una domanda del genere.
«È venuta con Blair il 4 ottobre. Si sono fermati tre giorni. Andavano a una conferenza a Glasgow».
«Non me ne importa più un accidente di lei. Sapessi il sollievo di non sentirmi cazziare per la miliardesima volta perché non alzo l'asse del cesso. Ma così, da spettatore neutrale, trovo che meritasse di meglio».
«Cioè te?».
«Dovresti dire a Caroline» ho tagliato corto «che non so più dove ho letto che la lattuga quando la tagli sanguina, e che per le carote essere strappate alla terra costituisce un grave trauma».
«Papà, non mi piace pensarti tutto solo in quella grande casa vuota».
«Be', se devo proprio dirti la verità, stanotte ho qui una - come si chiamano adesso? 
Ah sì, "accompagnatrici", oppure "operatrici del sesso". 
Insomma, come dicevamo noi cialtroni, una mignotta. 
Riferisci pure a tua madre, non mi fa né caldo né freddo».
«Perché non prendi un aereo e vieni ad appestarci un po' la casa?».
«Perché se non ricordo male a Londra anche nei ristoranti strafichi ti danno di primo una broda marrone, o un pompelmo con ciliegina sopra a mo' di capezzolo, senza contare che quasi tutti quelli con cui avevo qualcosa da dire sono morti, ed era anche ora. Harrods è diventato il tempio del ciarpame europeo, e a Knights-bridge ogni tre metri vai a sbattere in giapponesi pieni di soldi che si filmano a vicenda. Il White Elephant è belle che andato, l'Isow's idem, e l'Étoile non è più quello di un tempo. Inoltre non smanio per sapere chi si sbatte Lady Di, né se Carlo si sia o meno reincarnato in un tampax. I pub sono intollerabili, tutti un casino di jungle e slot machine. E anche i nostri sono cambiati. Se appena hanno studiato a Oxford o a Cambridge, o guadagnano più di centomila sterline l'anno, non sono più ebrei, ma "di origini ebraiche". Che non è la stessa cosa».

Non che ci abbia mai piantato le tende, a Londra. Ci ho passato giusto tre mesi negli anni Cinquanta, oltre ai due nel 1961 che mi sono costati i play-off della Stanley Cup. Vorrei far notare che il '61 era l'anno in cui i favoritissimi Canadiens furono eliminati in semifinale, alla sesta partita, dai Chicago Black Hawks. Mi sarebbe piaciuto vedere almeno la seconda, vinta 2-1 dagli Hawks al cinquantaduesimo minuto dei tempi supplementari, quando quel bandito intrigante dell'arbitro Dalton McArthur espulse Dickie Moore per ostruzione, consentendo di fatto a Murray Balfour di segnare il gol della vittoria. Al che Toe Blake, il nostro allenatore, si precipitò inferocito sul ghiaccio per dare il fatto suo a McArthur, beccandosi 2000 dollari di multa. Io ero a Londra per lavorare con Hymie Mintzbaum a quella coproduzione che ci portò a litigare a sangue, e a non rivolgerci la parola per anni. Hymie, nato e cresciuto nel Bronx, è un anglofilo. Non posso dire altrettanto di me.

Il fatto è che gli inglesi ingannano. 
Gli americani (e in questo senso anche i canadesi) sono come li vedi. 
Ma immaginate di sedervi su un 747 in partenza da Heathrow e di avere vicino il tipico vecchio trombone anglico, magari un pezzo grosso della City con triplo mento, balbettio ereditario, e parole crociate del «Times» sulle ginocchia. Che non vi passi nemmeno per la testa di prendervi una confidenza. Probabilmente Mr Tèallecinque è cintura nera di judo, ma non solo, nel 1943 è stato paracadutato in Dordogna, dove ha fatto saltare un paio di ponti, ed è sopravvissuto alle galere della Gestapo concentrandosi su quella che sarebbe un giorno diventata la traduzione ufficiale inglese dell'Epopea di Gilgames; e adesso, col sacco da viaggio di cellofan pieno di vestiti da sera «vedo-e-non-vedo» e di lingerie di sua moglie, sta andando alla convention di travestiti che si tiene ogni anno a Saskatoon.

Mike mi ha ripetuto per l'ennesima volta che avrei il pianoterra tutto per me. 
Dà sul giardino, ingresso indipendente. E per i bambini, che sono pazzi di Venerdì 13, sarebbe fantastico passare un po' di tempo col nonno. Peccato che io detesti essere nonno. Lo trovo indecente. Dentro di me continuo a avere venticinque anni, massimo trentatré, to'. Certo non sessantasette, con quel che ne segue - la puzza di stantio e di sogni infranti, l'alito cattivo, le gambe che avrebbero un disperato bisogno di una bella lubrificata. E ora che mi è toccato farmi mettere un'anca in vera plastica, non sono neppure più biodegradabile. Gli ambientalisti mi negheranno il diritto alla sepoltura.
In una delle ultime visite annuali a Mike e Caroline mi sono presentato stracarico di regali per i nipoti e per quella che Saul, il mio secondogenito, chiama Vostra Grazia. Ma il pezzo forte, una scatola di Cohiba che mi ero fatto portare da Cuba, l'avevo riservato per Mike. Me ne privavo a malincuore, ma speravo che gli avrebbero fatto piacere; con lui ho un rapporto piuttosto difficile. E in effetti era contentissimo, o almeno credevo. Solo che il mese dopo Tony Haines, uno dei soci di Mike che guarda caso è anche cugino di Caroline, viene a Montreal per affari. Mi telefona e mi dice che ha del salmone affumicato per me, da parte di Mike. Ovviamente lo invito a bere qualcosa da Dink's, dove lui tira fuori la sua scatola di Cohiba e me ne offre uno. «Oh, splendido» gli faccio. «Grazie».
«Non deve ringraziare me. Sono un regalo di Mike e Caroline».
«Ali, davvero» dico, mettendo via l'ennesimo rancorino da covare in santa pace. 
Secondo Miriam era quella la mia vera passione. 
«C'è chi colleziona francobolli, o scatole di fiammiferi» mi ha detto una volta. 
«Tu collezioni rancori».

La volta dei sigari Mike e Caroline mi avevano sistemato in una delle camere al piano di sopra. 
Non potevo lamentarmi, sembrava uscita da un negozio di arredamento. Sul comodino c'erano un mazzo di fresie e una bottiglia di Perrier, ma niente portacenere. Aprendo il cassetto alla ricerca di qualcosa che potesse farne le veci ho trovato un collant smagliato. L'ho annusato, riconoscendo il profumo all'istante: Miriam.
Lei e Blair avevano dormito in quel letto, che quindi era da ritenersi contaminato. 
Strappando via le lenzuola, ho perlustrato il materasso alla ricerca di macchie inequivocabili. Niente. Uah, uah, uah. Il Professor Cazzomoscio non aveva pucciato il biscottino. Probabilmente Herr Doktor Hopper, nato Hauptman, aveva limitato i danni a un po' di lettura a voce alta. Che so, qualche sua profonda osservazione decostruzionista sul razzismo di Mark Twain, o sullomofobia di Hemingway. Nel dubbio ho recuperato in bagno una bomboletta di deodorante al pino col quale ho disinfestato il materasso, dopodiché ho rifatto il letto alla belle meglio e mi ci sono buttato sopra. Adesso però le lenzuola mi si attorcigliavano addosso. E la stanza puzzava di pino. Ho spalancato una finestra, ma si crepava di freddo. Evidentemente nel mio destino di marito abbandonato era scritto che morissi di polmonite in un letto una volta lambito dal calore di Miriam. Dalla sua bellezza. Dal suo tradimento. Be', le donne della sua età, tra una caldana e l'altra, fanno spesso cose strane. Alcune, senza una ragione al mondo, diventano cleptomani. Se l'avessero arrestata non avrei certo deposto in suo favore; al contrario, ero pronto a dichiarare sotto giuramento che con le mani era sempre stata piuttosto brava. E che marcisse pure in galera. Miriam, mia adorata Miriam.

Mike, Dio lo benedica, è ricco da far schifo. Tenta di espiare portando ancora il codino, e appena può si mette in jeans (Ralph Lauren, naturalmente), anche se per fortuna ci risparmia orecchini, camicie coreane (un'abiura recente) e cappellini maoisti. È una specie di ras degli immobili. Possiede alcune stupende case sparse fra Highgate, Hampstead, Swiss Cottage, Islington e Chelsea. 

Le ha comprate tutte prima che l'inflazione schizzasse alle stelle, e le ha divise in miniappartamenti. Ha anche non so quali giri di soldi estero su estero, e gioca coi futures. Lui e Caroline vivono a Fulham, che adesso è un posto modaiolo, ma io lo ricordo bene prima dell'invasione yuppie. 
Hanno anche una dacia circondata da qualche ettaro di vigneto sulle Alpi Marittime, non lontano da Vence. In tre generazioni, dallo shtetl a produttori di Chàteau Panofsky. Che dire?

Mike è socio di The Table, un ristorante esclusivo a Pimlico con uno chef forse anche bravo, ma sicuramente villano - del resto così si usa adesso, no? Mike è troppo giovane per ricordarsi di Pearl Harbor, o di quello che successe ai canadesi presi prigionieri a... a... ma sì, insomma, quella rocca inespugnabile in Estremo Oriente. Non quella dove il sole sorge di colpo, no, l'altra, quella miracolata dagli inglesi. Singapore? Zz.

[...] Il mio superaggiornato, informatissimo figlio è una vera enciclopedia vivente per tutto quanto riguarda il gangsta rap, le autostrade (non ho detto le biblioteche, ho detto le autostrade) informatiche, il rave, la psicomotricità, Internet, «figate» varie ed eventuali, e tutti, dico tutti gli stereotipi linguistici della sua generazione. Non ha mai aperto l'Iìiade, né Gibbon, Stendhal, Swift, il dottor Johnson, George Eliot, o qualsiasi altro screditato fanatico eurocentrico, ma in compenso non c'è romanziere o poeta della pompatissima «minoranza risibile» di cui non si sia fatto mandare le opere da Hatchards. Scommetto che non ha mai passato un "ora davanti al ritratto della famiglia reale di Velàzquez, avete capito quale, quello del Prado, ma invitatelo a una vernice che promette un crocifisso affogato nel piscio o un culo sanguinolento di signora trafitto da un arpione e arriverà di corsa, sventolando il libretto di assegni. 

«A proposito,» ho detto decisissimo a proseguire l'intercontinentale «non per rompere, ma spero almeno che tu abbia sentito tua sorella».
«Guarda che cominci a somigliare alla mamma. Facci caso».
«Non mi hai risposto».
«Telefonare a Kate è inutile. Sta sempre per andare a una festa, oppure

Mordecai Richler, La versione di Barney





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